Franco Cardini è uno storico e saggista neto a Firenze nel 1940. Si è laureato in storia medievale presso l’Università di Firenze e attualmente è professore emerito presso l’Istituto di Scienze Umane e Sociali (Scuola Normale Superiore). Ha soggiornato alla Maison d’Italie a più riprese dal 1968 in poi.
La “mia” casa di Boulevard Jourdan
“Ah, si vous étiez au Club Méditerrannée!”. La gigantografia policroma del tucano umanizzato, abbigliato un po’ alla José Carioca di Walt Disney, che allegro e malizioso ci additava un panorama dietro di lui fatto di sole, di mare, di belle ragazze abbronzate e seminude e di bungalows fra le palme ci accoglieva ogni mattino, quando assonnati e infreddoliti, infagottati negli eskimos allora d’ordinanza, sciamavamo giù per la ripida scala del sottopassaggio della stazione del Métro di Boulevard Jourdan, nei bigi e gelidi giorni del febbraio 1968. E ci aspettava la solita corsa sotterranea fino al Palais Royal, quindi i dieci minuti di strada che ci separavano dal fatidico portone della Bibliothèque Nationale, in Rue Richelieu, dopo la rituale breve sosta per il grand crème e il croissant (che io, megalomane come al solito, mi concedevo al Cafè de la Comédie).
Fu quello il primo, abbastanza breve, tra i miei mai lunghissimi ma in cambio frequenti soggiorni al 14 di Boulevard Jourdan, alla “mia” Maison d’Italie: ricordo quelli delle estati del ’71 e del ’72, poi ancora nel ’74 e per brevi periodi ancora più tardi, fino a un più lungo soggiorno nel ‘98. Dal momento che a Parigi conoscevo molte persone e avevo un sacco di amici, spesso “tradivo” la residenza universitaria per qualche studio del centro o per qualche confortevole e più ampio ancorché periferico appartamento. In fondo, ero già un “post-studente”, che stava passando o aveva passato sia pur di poco la trentina e che a Parigi frequentava vari corsi di perfezionamento o di aggiornamento; un “post-studente” che per giunta lasciava a casa una moglie e prima una, poi due, poi addirittura tre (più tardi quattro) bambine, e che quindi si sentiva nella Ville Lumière un po’ un evaso, un po’ un clandestino, un po’ un fuggiasco: con uno strano misto di rimorso per la diserzione dai doveri familiari vilmente celata dietro l’alibi dello studio e della “carriera” e di ebbrezza all’idea di chissà quali tempestose avventure, perché Parigi ebbene sì è sempre Parigi e quando si è la ci si sente perennemente innamorati anche se non si sa bene di chi, perché si è innamorati di lei, delle foglie secche dei boulevards, delle passeggiate tra i bouquinistes, dei pomeriggi passati a sfogliar vecchi improbabili romanzi americani chez Shakespeare & Company aspettando l’ora del balon rouge che fa da aperitivo. E, tu lo voglia o no, ti senti sempre come dentro a un film…
“Ragazzo invecchiato” e “post-studente”, mi capitò molto relativamente di condividere la vita sociale della Maison. Ne uscivo al mattino presto, rientravo a tarda sera, alla domenica e quando non ero a giro mi chiudevo in stanza a studiare.
Le due fredde e piovose estati del ’71 e del ’72 furono il vero tempo della mia bohème parigina indissolubilmente legata a Boulevard Jourdan. Tempi della giovinezza universitaria che un ormai assistente e “professore incaricato” non si decideva ad abbandonare: tempi di frequenti e tumultuose riunioni (non era passato da molto il Joli Mai del Sessantotto) che sfociavano talvolta anche in manifs combinate con gli altri residenti della Cité Universitaire. Furono epiche le giornate delle proteste di piazza contro la speculazione che aveva indotto la Mairie di allora a sbancare i vecchi gloriosi padiglioni in ferro delle Halles di Baltard, a Saint-Eustache, per far posto all’immensa voragine che per molti anni fu denominata il Trou des Halles e poi all’enorme business che attualmente è in via di colossale rifacimento. Furono due bellissime, intense estati, vissute quasi in uno stato di trance con numerose notti in bianco passate a studiare, belle lezioni in Sorbonne e – ebbene, sì…- anche qualche piccola cotta e qualche flirts, inevitabili e quasi obbligatori entrambi in casi di questo genere (ma frenati, lo riconosco, dalla mia vigile autocoscienza di persona precocemente sposata e già più volte padre). Debolezze giovanili che passata la settantina si possono anche confessare con umiltà e con un pizzico di humour, tantopiù che sono sempre stati segreti di Pulcinella. Nostalgia?, mi chiederete. Senza dubbio: e parecchia, anche. Ma condita grazie a Dio di pochi e poco profondi rimorsi. E magari di qualche rimpianto. Per me, uno solo. La brunetta che in quelle due estati serviva alla Cafeteria al piano interrato della Maison e che era forse fiorentina, o comunque doveva essere studentessa a Firenze a giudicare da un paio di frasi che riuscii a cogliere. Avevo notato che doveva a sua volta avermi notato, e ora – si tratta di quarant’anni e di quaranta chilogrammi or sono – posso anche capire perché. Fra l’altro allora, per combattere l’incipiente calvizie. Fra l’altro allora, per combattere l’incipiente calvizie, mi radevo la testa a zero: ed era scelta controcorrente, in quel tempo di capelloni. Così, con la mia barbetta nera, avevo un’aria tartara che non dispiaceva alle ragazze. E poi le piaceva l’Eau sauvage di Dior, la mia fedele eau de toilette di allora. Ma, a parte qualche occhiata e poche parole tipo Bonjour e Merci, non l’ho mai abbordata. Chissà. Se fossi il dottor Faust, lei sarebbe forse la mia Margherita. Ma non lo sono, ed è meglio così. Eppure quando penso alla “mia” casa di Boulevard Jourdan rivedo invariabilmente anche i suoi grandi occhi. Quasi di certo, è già nonna.